La scelta etica che ci ha spinto a guardare ‘Oltre il ponte’ ci conduce oggi, all’alba del nuovo anno, a vedere oltre quello che la lingua latina chiamò ‘Mare Nostrum’ ma che la geografia definisce, più precisamente, ‘Canale di Sicilia’.
Si osservi come la dizione di ‘canale’ non possa essere considerata da alcuno come impropria: infatti nel punto più stretto separa per soli 145 km l’Italia (ma anche l’Europa); così come, analogamente, il Canale di Otranto separa l’Italia dall’Albania per soli 85-100 km.
Si tratta di distanze irrisorie, se lette in chiave di geo-politica: basti pensare che lo stretto della Manica nel punto più stretto è di soli 34 km… eppure tale distanza è riuscita a convincere gli inglesi ad uscire dall’Unione Europea, prendendo delle distanze ‘politiche’ ed istituzionali laddove storia, cultura, economia avevano di fatto superato quella barriera fisica, affrontata dall’uomo anche a nuoto libero ed oggi collegata con il tunnel!
Se l’esito del referendum che ha decretato la famigerata ‘brexit’ ha colto di sorpresa molti italiani, c’è da chiedersi se -lasciando stare il resto dell’Europa che dimentica spesso l’intera sua riva meridionale e il mare su cui si affaccia- almeno gli italiani dispongono di una corretta informazione su ciò che avviene nel continente africano.
Attenzione a non ripetere quanto accadde per la crisi dei balcani: che vide Europa ed Italia assistere impotenti al disfacimento, in pochi anni, della pacifica Yugoslavia (con l’esplosione di inauditi conflitti etnici, nonostante un assetto federale apparentemente tranquillo); portandoci sull’orlo di una guerra diretta a pochissimi km dai nostri confini.
Ebbene, se la profondità del Canale di Sicilia è al massimo 340 metri, al contrario il solco psicologico che ci divide dall’Africa è assai più profondo. Di fatto, complice il silenzio irresponsabile della politica e dei mezzi di informazione, la stragrande maggioranza del popolo italiano non ha la minima idea di quanto succeda veramente nella vicinissima Africa.
Ma basta sfogliare qualche pagina delle riviste missionarie, o leggere i quotidiani internazionali, per scoprire che il continente africano sta letteralmente esplodendo: oltre al caos della vicinissima Libia (tuttora ingovernabile e privo di soluzioni), si scorge un panorama più che desolante chiaramente allarmante: conflitti civili aperti in almeno una decina di Stati, crisi di regime (per corruzione, impotenza, incapacità, divisioni intestine, ricatti esterni) in numerosi Paesi, guerre locali con conseguenti deportazioni, ribellioni latenti , tensioni ovunque, esiti disastrosi dei cambiamenti climatici, diffusione di malattie e insorgenza di virus debellati, deficienza alimentare e idrica, disgregazione dei tessuti connettivi sociali, abbandono delle campagne, banditismo criminale incontrollato, espansionismo islamico e terrorismo. C’è di che allarmarsi. E che ci aiuta a capire cosa sta all’origine delle fughe di massa e dell’adesione di molti alle pseudo-religioni apocalittiche, che muovono decine di milioni di persone.
A fronte di una siffatta situazione, la presenza dei nostri piccoli contingenti militari -prima in Somalia, ora in Libia e prossimamente in Nigeria- pur seria e responsabile, non può certo essere considerata risolutiva né sufficiente a fronteggiare la portata di simili spinte: in grado di sovvertire gli equilibri mondiali e di schiacciare anzitutto la piccola Europa.
Quando smetteremo soltanto di lamentarci per l’arrivo dei profughi e ci sveglieremo dal lungo sonno?