Samuel Spritzman nacque il 24 aprile 1904 a Chisinau, nella regione della Bessarabia – oggi capitale della Moldavia, allora città russa contesa con la Romania, Nella città, viveva quasi il 50% di popolazione ebraica, lì trasferitasi a causa del forte antisemitismo russo e polacco. Spritzman ebreo, figlio di un medico, Elia, e di Adelaide Faiman, rifiutato nelle università balcaniche a causa della sua religione e per il suo stato ufficiale di apolide (in quanto nato in una città russa sottomessa alla Romania) avendo zii residenti a Parma, nel 1922 decise di studiare ingegneria in Italia. Lavorò in FIAT e alla Magneti Marelli, da dove fu licenziato nel 1939, a seguito dell’emanazione delle leggi razziali. Dal giugno 1940 fu confinato nelle carceri di San Francesco di Parma, poi a Nepi (Viterbo). Liberato dietro pressioni dell’ambasciata russa di Roma nell’aprile 1941. lavorò per due mesi all’ufficio stampa, ma il 27 giugno ’41 fu arrestato dall’OVRA in quanto non cittadino sovietico. Trasferito a Regina Coeli e quindi internato nel campo dei politici e dei partigiani a Corropoli (Teramo). Nel 1942, per motivi di salute e grazie all’interessamento della segreteria di stato vaticana, Spritzman riuscì a farsi trasferire a Parma come vigilato speciale. Qui, in viale Umberto – dal secondo dopoguerra Stradone Martiri della Libertà – lavorava lo zio acquisito Ferruccio Candian, oculista antifascista sposato ad un’ebrea, la sorella del padre di Samuel, Riwka Spritzman che gli fornì supporto e contatti durante l’internamento. Dopo l’8 settembre ’43 fu arrestato dalle autorità germaniche, recluso in San Francesco e successivamente nel campo di concentramento di Scipione. A Scipione fu contattato per collaborare come tecnico ed esperto con le organizzazione dell’Asse, anche in ragione delle sue capacità linguistiche (conosceva sia il russo che il tedesco). A tale invito Spritzman oppose un rifiuto netto. Da Scipione iniziò il lungo travaglio della deportazione verso la Germania. Fu trasportato a Bologna presso la sede della Gestapo di via Saragozza con l’accusa, di essere agente del NVKD russo. Dopo un breve periodo nelle carceri di San Giovanni in Monte a Bologna, fu incarcerato a Verona insieme ad alcuni partigiani, insieme ai quali fu incaricato di scavare bombe inesplose nella zona tra Verona e Mantova. Da lì, nel corso del 1944, fu rimbalzato ai campi di concentramento di Bolzano; poi di Merano; e infine al campo segreto di Certosa (Val Senales). Raggiunse il campo di lavoro di Birkenau con il convoglio del 28 ottobre 1944. A seguito di un accusa di sabotaggio di un carico mitraglie assieme a compagni russi, fu trasferito nel tragicamente noto Block 11 di Auschwitz per essere processato. Dopo una breve permanenza nella prigione di Breslau fu tuttavia trasferito e portato prima al campo di eliminazione di Gross Rosen, e poi a Landeshut. I russi liberarono il campo la mattina del 9 maggio 1945. La storia di Spritzman è tanto intensa nell’esperienza dei campi nazifascisti, quanto singolare e per certi versi ambigua negli aspetti politico-religiosi della sua deportazione. Ebreo, apolide, di lingua russa e in costante contatto con i russi, ma con conoscenze del tedesco, e soprattutto, autorevole e competente ingegnere: per tutti questi aspetti la storia di Spritzman difficilmente si presta a spiegazioni unilaterali. Dopo la guerra, grazie all’interessamento del prefetto di Parma Giacomo Ferrari, e della federazione del PCI, ottenne lo status di perseguitato politico. Sopravvissuto alla Shoah e alla deportazione, Spritzman morì nel 1982, nella sua casa di Parma, in via Mascagni. Luigi Longhi
Luigi Longhi nacque l’8 marzo 1925 nella casa di famiglia in via della Salute 46. Ultimo di
sei fratelli tra cui l’attivista antifascista Bruno – diventato poi il capo del reparto propaganda del movimento clandestino parmense- che lo iniziò all’attività politica. Assunto nel 1940 dalla società telefonica Timo (Telefoni Italia Medio Orientale). iniziò a collaborare con una rete cospirativa opposta al regime inquadrata nelle SAP (Squadre di Azione Patriottica). Attraverso l’intercettazione delle comunicazioni telefoniche entrò in possesso di informazioni riservate che poi venivano girate al SIP (Servizio Informazione e Politica) e al SIM (Servizio Informazioni Militari). Oltre ad attività di intelligence, la rete cospirativa organizzò anche una serie di azioni tra cui quella del 15 luglio 1944 alla caserma Passo Buole del Comando Provinciale Militare finalizzata al recupero di armi. Il 21 agosto 1944 Luigi venne arrestato insieme a Anselmo Gaudenzi, Franco Bolsi e Luigi Corsini, prelevato da casa e portato a Palazzo Rolli, sede delle SD, venne interrogato per otto giorni. Il 29 agosto fu trasferito nel carcere di San Francesco e poi tradotto nel campo di transito di Bolzano per essere deportato il 5 ottobre a Dachau Messo ai lavori forzati nel sottocampo di Uberlingen sul lago di Costanza. Morirà a seguito di stenti, il 7 marzo 1945. Giorgio Nullo Foà e Doralice Muggia
Giorgio Nullo Foà, nato nel 1919 a Parma, era stato studente del liceo classico “G. D. Romagnosi”. Dopo la fine degli studi aveva iniziato a lavorare come commesso nel negozio di sementi di Achille Bonelli, situato in pieno centro città, in piazza Garibaldi, dove oggi si trova la “pietra d’inciampo” che lo ricorda. Fu arrestato il 15 settembre 1943 da militari tedeschi, che lo prelevarono proprio sul posto di lavoro. Foà trascorse un periodo in carcere a Milano, per poi essere trasferito con il convoglio n. 05 del 6 dicembre 1943 nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau. Non sopravvisse alle condizioni terribili del campo e pochi mesi dopo, morì, il 4 febbraio 1944. Allo stesso destino andò incontro la madre di Giorgio Nullo, Doralice Muggia. Nata il 2 giugno 1876 a Colorno, sposata con Enea Foà, avvocato, con lui ebbe due figli, Gastone e Giorgio Nullo. Gastone, anch’egli avvocato, espatriò in Palestina allo scoppio della guerra. Arrestata nel 1944 e tradotta al campo di Bolzano, morì a Merano il 15 maggio 1945, in stato di detenzione, senza riuscire a vedere il figlio per un’ultima volta. Ugo Franchini Ugo Franchini, nato a Parma il 4 maggio 1929 e cresciuto in una famiglia antifascista, penultimo di cinque figli, abitò fino al 1939 – insieme ai fratelli, alla madre cucitrice e al padre facchino – in borgo Gazzola 23, per poi essere forzosamente trasferito presso i cosiddetti Capannoni dello zucchero, in via Toscana. Fin da tenera età Ugo lavorò come apprendista sarto presso la caserma dei Carristi in piazzale della Pilotta, contribuendo al magro bilancio familiare, aggravato dalla morte del padre nel 1941. Subito dopo l’8 settembre del 43 – da poco aveva compiuto 14 anni – il giovane prese parte, assieme ai fratelli maggiori Mario ed Enzo, alle prime attività di raccolta armi in favore del nascente movimento partigiano. Un altro fratello, William, nello stesso periodo combatté – sempre tra le file partigiane – in Montenegro contro i nazisti, dove morì. Nei mesi successivi Mario, Enzo e Ugo si unirono alle formazioni operanti in montagna: “Scampolo” – quello era il nome di battaglia scelto da Ugo – partì per ultimo, aggregandosi alla 47a brigata Garibaldi, dove già da tempo militava il fratello Mario. Catturato verso la fine del 1944 durante uno dei tanti rastrellamenti nazifascisti, fu tradotto al carcere di San Francesco e nel febbraio 1945 deportato al campo di concentramento di Mauthausen. e assegnato al sotto-campo Gusen II. Sottoposto al lavoro massacrante, alle violenze e alle terribili condizioni morali e materiali del campo, morì il 9 aprile del 1945. Solo un mese dopo
avrebbe compiuto sedici anni. Famiglia Camerini
La famiglia Camerini abitava in Borgo delle Colonne 20. Nell’abitazione risiedevano Orsola Amar, vedova dell’ex rabbino di Parma Donato Camerini, e i figli Emanuele, Giacomo, Gemma, Letizia ed Ulda; mentre l’altra figlia Emilia era coniugata con Enrico Della Pergola. Gli uomini della famiglia riuscirono, non senza difficoltà, a riparare a Genova, dove rimasero per molti mesi. Le donne furono, invece, tutte arrestate a Tizzano Val Parma, dove si rifugiarono. Mentre Emilia Camerini e i due figli piccoli Cesare e Donato furono deportati a Auschwitz, le altre tre donne della famiglia riuscirono a salvarsi, in ragione delle loro cagionevoli condizioni di salute. Orsola Amar, in ragione della sua età avanzata, venne liberata poco dopo l’internamento a Monticelli: una norma prevedeva il proscioglimento degli internati con più di settant’anni. Gemma e Letizia, gravemente ammalate, furono ricoverate d’urgenza all’Ospedale Maggiore di Parma. In ospedale Letizia conobbe la crocerossina parmigiana Luisa Minardi, che la accudì, la aiutò a fuggire dall’ospedale e la nascose sotto il falso nome di Maria Fulgenzi presso la sua abitazione e poi all’Istituto Buon Pastore. Il 7 febbraio 1945 Letizia morì comunque, a causa di complicazioni legate condizioni di salute. La Minardi, con la complicità della direzione dell’Istituto, le fece organizzare un funerale cattolico. Sarà tradotta al cimitero ebraico soltanto dopo la Liberazione. Alla Minardi, per la sua opera, nel 2004 venne conferito il titolo postumo di “Giusto delle nazioni”. Famiglie Polizzi e Barbieri
La famiglia Polizzi era tra le più attive nell’antifascismo. Fin dalla caduta del regime fascista il 25 luglio 1943 la loro abitazione, in vicolo Santa Maria nel quartiere dell’Oltretorrente, rappresentò un punto di riferimento per l’organizzazione della Resistenza in città. Tutti i componenti della famiglia furono attivi nella lotta di Liberazione, a partire da Secondo Polizzi e Ida Mussini, ed arrivando ai loro figli Lina, Laura e Primo. Gli zii dei ragazzi, Remo Polizzi e Luigi Porcari, erano entrambi dirigenti del partito comunista clandestino. Per la loro attività tutti vennero arrestati dalle autorità della Repubblica sociale. Secondo, Ida, Lina e Primo (“Manetto”) furono deportati in Germania: il padre e il figlio a Mauthausen, la madre e Lina a Ravensbrück. In tre tornarono a guerra finita, mentre Secondo Polizzi morì nel sottocampo di Gusen (Mauthausen). L’altra figlia, Laura (partigiana “Mirka”) partecipò alla lotta di Liberazione come staffetta, e fu attiva nel settore stampa e propaganda. La deportazione toccò profondamente anche ad altri due membri di una famiglia antifascista della città, quella dei Barbieri, residenti in viale delle Rimembranze 36. Giuseppe, nato nel 1897, fu arrestato insieme al figlio Sergio il 4 novembre del 1944, lo stesso giorno di Primo Polizzi. Tutti e tre, dopo essere stati condotti nel carcere di Reggio Emilia e poi nuovamente a Parma, furono trasferiti a Bolzano e di lì deportati a Mauthausen. Padre e figlio morirono lì, nel sottocampo di Gusen, il 28 marzo 1945. Renzo Mosé Levi Renzo Mosé Levi nacque il 3 febbraio 1887 a Soragna, da Abramo Levi e Giulia Bosch. Nel paese nativo Levi era proprietario di un podere, ma si era trasferito a Parma, in via Cavallotti 30, insieme alla moglie Elena Foà e ai figli Bruno e Fausto, entrambi studenti. Levi fu arrestato il 27 settembre 1943, poco prima del programmato tentativo di fuggire in
Svizzera. Giunto al campo di raccolta di Fossoli, con il convoglio n. 09 del 5 aprile 1944 fu poi deportato a Mauthausen, e lì assassinato, poco meno di un anno dopo, il 20 marzo 1945. Parte della sua storia precedente l’internamento è stata ricordata dalla moglie, in una testimonianza scritta raccolta subito dopo la Liberazione e conservata presso l’Istituto storico della Resistenza di Parma. Famiglia Della Pergola
Le vicissitudini della famiglia ebraica Della Pergola videro la sopravvivenza del solo capofamiglia all’esperienza dell’arresto e della deportazione. I Della Pergola erano tra i più in vista nella comunità ebraica del parmense. Nei giorni precedenti il rastrellamento degli ebrei da parte dei fascisti della Repubblica sociale, i componenti della famiglia, presagendo la deportazione, abbandonarono la loro abitazione, situata in via Torelli 10. Enrico Della Pergola, rabbino di Parma, decise di tentare la fuga verso la Svizzera, insieme ai fratelli della moglie Emanuele e Giacomo Camerini. Vi riuscì, riparando oltreconfine, mentre i fratelli si videro costretti a riparare prima a Voghera e poi a Genova. Non altrettanto fortunata fu la sorte della moglie di Enrico, Emilia Camerini, e dei figli Cesare Davide e Donato, rispettivamente di 8 e 11 anni. I tre furono arrestati a Tizzano Val Parma il 10 dicembre 1943, insieme alle altre donne della famiglia di Emilia, che riuscirono a salvarsi. Non fu il caso di Emilia e dei figli che furono tradotti al campo di concentramento di Monticelli Terme, e dopo essere passati per Fossoli vennero trasferiti ad Auschwitz. Birkenau dove morirono tra l’aprile e il maggio 1944. Famiglia Fano Ermanno Fano, farmacista, visse con la moglie Giorgina Padova e i due figli Liliana e Luciano a Pellegrino Parmense fino al 1938. Nel 1942 la famiglia si trasferì nella casa parmigiana dei genitori di Aldo: Enrico Fano e Giulia Bianchini, in via Imbriani. Il 27 marzo 1942 nacque il terzogenito Roberto. Il 7 dicembre 1943 la famiglia fu prelevata e internata in due campi diversi: Giorgina e i figli nel campo di Monticelli Terme, Ermanno in quello maschile di Scipione. Inizialmente i nonni furono risparmiati per l’età avanzata, per essere arrestati il 2 agosto dell’anno seguente. Il 9 marzo 1944 la famiglia fu trasferita nel campo di Fossoli, prima di giungere ad Auschwitz il 10 aprile. Nel campo di sterminio tutta la famiglia, inclusi i due anziani, trovò la morte. Fortunata e Libera Levi Le sorelle Fortunata e Libera erano nate a Busseto negli anni Sessanta dell’Ottocento: Fortunata nel 1869, Libera nel 1863. Erano solo due delle cinque figlie di Davide Levi, il quale, a conferma della propria fedeltà agli ideali del Risorgimento, decise di chiamare le proprie figlie Italia, Libera, Fortunata, Dina e Lavole, richiamandosi al motto “Italia libera e fortunata Dio la vuole”. Fortunata e Libera vennero arrestate, entrambe molto anziane, nella loro abitazione in via Nino Bixio, in 116, nel quartiere dell’Oltretorrente, il 21 luglio 1944, sotto gli occhi di molti passanti. Secondo un rapporto di polizia, nei giorni successivi militari delle forze armate germaniche sarebbero tornati nell’appartamento per sottrarre i mobili e le suppellettili della famiglia: letti, cuscini, tavolini, lenzuola, persino materassi. Le sorelle Levi furono deportate prima a Fossoli, poi trasferite nel carcere di Verona e infine nel campo di sterminio di Auschwitz. Lì morirono, il 6 agosto dello stesso anno, proprio il giorno del loro arrivo in Polonia